Vi scriviamo dopo qualche giorno, cosi tante cose da raccontare!
Vi abbiamo lasciato a Metoro dove la pioggia ci ha fatto partire in ritardo ed alquanto titubanti. Da lá abbiamo percorso 130 km nel niente, in direzione Macomía.
Dire “niente” non é corretto, abbiamo pedalato dentro una Riserva Naturale tutt’altro che niente.
Nessuna città, né strutture di alcun tipo, soltanto una natura incontaminata e prorompente, una natura che non da tregua e che ha riempito il nostro lento passaggio in bicicletta di scorci memorabili.
Il territorio é collinare e guardando all’orizzonte queste terre sconfinate ci siamo resi conto di quanto il nostro viaggio sia folle, eccitante ed inebriante.
Ma torniamo a noi, quel giorno ha piovuto tantissimo e la “nuvola di Fantozzi” ci ha seguito senza sosta costringendoci a tratte lunghissime senza potersi fermare per non infreddolirci.
L’arrivo a Macomia é stato faticoso.
Il giorno dopo ci siamo concessi uno stop per recuperare le gambe e visitare la famosa Pangane, dentro la Riserva delle Querimbas.
Sfortunatamente ci siamo diretti alla spiaggia sbagliata e siamo finiti in un villaggio di pescatori, posto remoto, non proprio paradisiaco.
L’amarezza é stata tanta.
Il villaggio non offriva niente e la pioggia ha rovinato i nostri piani goderecci.
Puo succedere, ci siamo comunque riposati e rilassati.
Siamo ripartiti, con davanti altri 140 km si asfalto da mangiare 🙂
É stata una domenica folkloristica.
Finalmente conosciuto u pó di folklore locale, rurale.
Durante la pausa pranzo, infatti, ci siamo fermati in un villaggio remoto e siamo stati coinvolti da un gruppo di donne e bambini urlanti, capeggiati da uomini mascherati che danzavano ed urlavano in mezzo alla strada.
Le maschere avevano colori, capelli e tratti esasperati.
La storia di questa cerimonia carnevalesca ha più versioni, la più quotata é la seguente.
I Makonde, tribu che vive al confine tra il Mozambico e la Tanzania narrano che molto tempo fa, nella foresta africana, abitava un mostro selvaggio. Non era né uomo né animale e viveva sempre appartato. Non si lavava mai né si tagliava i capelli. Beveva soltanto il minimo indispensabile per sopravvivere. Un giorno, visto un bell’albero, lo tagliò, lo sfrondò, ne tolse la corteccia e scolpì una figura femminile. Era di una bellezza indescrivibile. Compiaciuto della sua opera, il mostro volle tenersela con sé per sempre. Una notte, però, la scultura divenne donna viva. Il mostro se ne innamorò e l’amò. Giunto il momento di partorire, i due si recarono al fiume. La donna partorì un primo figlio morto, quindi un secondo, anch’egli morto; solo il terzo nacque vivo: era un uomo, il primo makonde. Questo mito sull’origine dell’uomo spiega perché la figura femminile sia il soggetto principale e più frequente della scultura di questo popolo.
Le maschere possono essere di tre tipi: con il primo si rappresentano teste di donna raffiguranti la capostipite, venerata e invocata come protettrice nei viaggi, nelle avversità, nella maternità e nella morte; il secondo è costituito da gruppi scultorei in legno o creta, ad uso didattico, con soggetti realistici, che ritraggono scene di vita quotidiana atte alla formazione dei giovani. Attraverso tali sculture, gli inizianti imparano i segreti della vita lavorativa, coniugale, familiare e sociale, abbracciando tutto l’arco vitale, dalla nascita alla morte.
Il terzo genere fa capo alla maschera Mapiko, personificazione del maligno, che era conservata in un tempietto situato in luogo appartato rispetto al villaggio. Era permesso vedere la maschera sacra solo nelle cerimonie e nelle danze iniziatiche, di fertilità o di guerra.
Questa cerimonia é caratterizzata da musica, canti e balli, la danza é chiamata Mapiko.
le maschere possono coprire il viso (“máscara facial”) o il capo intero (“máscara capacete”): entrambe sono fatte di legno e hanno un profondo significato religioso e cerimoniale, legato al rituale dell’iniziazione maschile. Il danzatore che esegue la coreografia, molto ritmica e cadenzata, oltre a indossare le maschere caratteristiche, è coperto di oggetti sonori (chocalhos, “sonagli”) ed è accompagnato da vari percussionisti, con i loro tamburi di legno e coperti di pelle d’animale.
Divertentissimo!
Siamo ripartiti circondati da caos, musica e grida per re immergersi nel famoso niente.
Ma la calma é durata poco, era giornata di cerimonie ed abbiamo conosciuto un’altra festa tipica.
Il ritorno dei ragazzi dal “mato” (foresta) e la preparazione delle bambine alla loro partenza per lo stesso.
Ci spieghiamo meglio, gli uomini cosi come le donne, per essere rispettati nella comunita ed essere trattati da adulti, vengono spediti nella foresta quando hanno una eta compresa tra 7 e 12 anni, devono autosostenersi e tornare dopo 30-45 giorni (dipende da tribu a tribu).
Ci siamo dovuti fermare per far passare una macchina su cui svettava uno dei piccoli eroi rientrati in citta che salutava la folla tutto intorno.
Tante capanne con capannelli di persone festeggianti e sopratutto tanto alcol, tante persone sovreccitate.
Ecco perché, arrivati a Oassa, anch’essa piena di famiglie in festa e capannelli di centinaia di persone urlanti e cantanti, in assenza di alcun tipo di struttura, ci siamo diretti nell’unica esistente: la caserma di polizia.
Ci hanno ospitato, abbiamo messo la tenda dietro la caserma e goduto di una cena a lume di torcia con 4 giovani poliziotti di guardia alla cittá.
Anche il loro cuoco era ubriaco e le risate non sono mancate, sopratutto quando é partito nel buio piu totale (il paese é ancora senza energia) scordandosi di servire la cena ai poliziotti, lasciata nella pentola, e scordandosi la sua bicicletta in mezzo alla strada.
Ci siamo svegliati il giorno dopo con 3 profughi somali seduti accanto alle nostre biciclette.
Solo quando li abbiamo visti fuggire dalla porta secondaria abbiamo capito che fossero appunto profughi “fermati” perché non in regola.
Avevano documenti e vaccini, ma non avevano soldi, un certo “capo” avrebbe dovuto andare a prenderli, ovviamente tale capo li ha semplicemente abbandonati.
Paesi diversi..stesse storie..
Ripartiti da Oussa siamo arrivati in 40 km a Moçimboa da Praia.
Posto desolato, su un estuario con un bellissimo mangrovieto, abbiamo trovato una sola struttura attiva.
Un Lodge gestito da una francese con un cuoco dalla Tanzania ma, sopra ogni cosa, con una doccia!!
Ripetiamo: doccia!!
Sono 20 giorni che ci prendiamo a secchiate al buio, finalmente una doccia vera, in mezzo al verde, all’aperto.
Ne abbiamo fatte due in mezza giornata, solo per il gusto di docciarci con acqua corrente.
La sera ci siamo goduti piatti seri, pesce alla griglia e patate lesse, NIENTE POLLO!!!!
Ripartiti stamattina, vi stiamo scrivendo da Palma, da un terreno di un sudafricano che ci ha fermato offrendoci di accamparci con lui nel terreno in cui lavora ed in cui passerá la notte.
Rifiutare?impossibile.
Eccoci qui con Lucius, grigliando un coniglio dentro una cariola, la nostra tenda é tra due container e ci godremo un buon braai seguito da mango e banane.
Vi auguriamo una buona notte trepidanti per la nostra tappa di domani, finalmente passeremo il confine..finalmente Tanzania.
🙂
i met with this rider in mtwara in Tanzania, they came to my hospil for checking malaria. the guy has positive malaria then after three day they came back for recheck after got a medicine for malaria. i apriciate you brove rider, all the best to you journey.
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Thanks for your help, waiting you in Italy 🙂
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